C’è un nesso tra innovazione tecnologica e mercato del lavoro? e tra innovazione e divaricazione della ricchezza nei Paesi? Come possiamo esorcizzare un futuro senza lavoro e nuove povertà diffuse? Non ci sono risposte facili, né scontate: come sempre il futuro è nelle nostre mani e il modo in cui lo determiniamo dipende dalle scelte di oggi.
Nel dibattito sulle modalità di uscita dalla lunga crisi dello sviluppo che ha bloccato l’economia occidentale, con insistenza si è sollevato il tema dell’impatto dell’evoluzione tecnologica sul mercato del lavoro. Per chi ha vissuto lo sviluppo dell’informatica, all’inizio degli anni ’80, il tema risulta familiare. Allora come ora lo sviluppo e l’introduzione dell’innovazione tecnologica era visto come una minaccia ai livelli occupazionali; allora come oggi l’intelligenza artificiale veniva agitata come lo spauracchio della sostituzione delle macchine all’uomo.
Di recente il Pew Research Center, Boston Consulting Group e Mc Kinsey hanno affrontato il tema.
Tra gli esperti non c’è univocità, dice una ricerca del Pew Research Center: ci si divide tra apocalittici e tecno-ottimisti. I primi pronosticano la sostituzione del lavoro, anche intellettuale, con robot e intelligenza artificiale. I secondi si rifanno alla storia dell’umanità, che ha sostituito vecchi modi di produzione con i nuovi; in fondo, dicono, l’agricoltura è passata dall’assorbire il 40% della forza lavoro al 2% di oggi, ed è stata sostituita da nuove attività.
Questo però è avvenuto nel corso di secoli - se non di millenni - mentre oggi i fenomeni abbracciano le decadi. Il Boston Consulting Group cita cifre impressionanti: la spesa mondiale per i robot è previsto che passi dai 15 Mdi $ del 2010 ai 67 del 2025, sfruttando caduta dei prezzi e aumento delle performance.
C’è un nesso tra innovazione tecnologica e mercato del lavoro? E tra innovazione e divaricazione della ricchezza nei Paesi? Come possiamo esorcizzare un futuro senza lavoro e nuove povertà diffuse? Non ci sono risposte facili, né scontate: come sempre il futuro è nelle nostre mani e il modo in cui lo determiniamo dipende dalle scelte di oggi.
Nati per svolgere attività ripetitive, dannose, poco precise si sono spostati in aree ad alta precisione o delicate. Aumenta la densità robotica (n. robot ogni 10.000 addetti), molto alta in Corea del Sud e Giappone, raggiunge il 40% nel settore automobilistico a livello mondiale, con punte in Giappone, Francia, Germania, Usa e Italia. L’adozione di robot è destinata a crescere e a ridurre ulteriormente i tassi di occupazione, estendendosi a vari campi al di là dell’automazione industriale.
I robot stanno quindi quindi riempiendo il nostro spazio vitale, vengono impiegati in vari campi: per fare la guerra e disattivare esplosivi, smaltire ordinazioni, fare pulizie, ma anche ballare e suonare il violino. In sala operatoria assistono il chirurgo, aiutano i disabili, fanno compagnia e accudiscono gli anziani, rilevano dati dai disastri, forniscono notizie, guidano le auto.
Dato il forte impatto sulla produttività e l’impatto sul diverso costo del lavoro, possono fare la differenza per la competitività delle imprese o dei Paesi; ad esempio, Paesi con forti infrastrutture di automazione e con un ampio numero di programmatori di robot possono essere più competitivi di mercati a basso costo del lavoro. Elementi di questo tipo possono mutare la dinamica competitiva della globalizzazione. La riduzione dei cicli di vita dei prodotti, il just in time e la riduzione delle scorte sono resi possibili dalla flessibilità e dinamismo derivanti dall’automazione; la disponibilità di molte braccia rende possibili azioni multiple. La fabbrica di rasoi della Philips, in Olanda, utilizza 128 robot, i nove lavoratori utilizzati sono addetti ai controlli della qualità.
Ancora, sul piano economico i vantaggi possono essere molteplici: grandi risparmi energetici (senza luce, poco calore); risparmi sulla logistica (Amazon lo utilizza nei magazzini e sta pensando ai droni per e consegne); assistenza agli anziani e ai disabili (la Honda ha creato ASIMO, in grado di salire le scale). Google ha sviluppato un auto che si guida da sé, adottata in molti stati Usa.
Mc Kinsey ha promosso una discussione tra esperti per valutare gli impatti e prevedere gli sviluppi del fenomeno. Reid Hoffman, Ceo di Linkedin, sottolinea le nuove opportunità che si aprono a fronte della riduzione di posti di lavoro. Cita il caso di Shenzhen, in Cina, e di aver visitato una fabbrica automatizzata al 60%, con il restante 40% fatto di lavoratori con competenza di alto livello. La chiave del futuro, riflette, è l’adattabilità e su questo gli umani sono superiori alle macchine. Tim O’ Reilly ricorda casi come Uber o Apple store, esempi di automazione che creano una migliore customer experience; non è detto, riflette, che ciò avvenga sempre automatizzando i processi. Si aprono opportunità per lo sviluppo di micro-imprenditorialità. Il problema sono i tempi: in presenza di un tasso altissimo di disoccupazione giovanile, questo si può tradurre in disperazione, vanificando le attese ottimistiche di aggiustamento.
Una riflessione, poi, la merita la qualità dei lavori creati. Dal 2000 il 92% della forza lavoro ha avuta accesso a compensi in discesa, non in aumento, ricorda Matt Slaughter, della Tuck School of Business. La riduzione ha coinvolto anche i laureati. Si sono salvati mediamente Phd, medici, avvocati e possessori di MBA. Laura Tyson, docente a Berkeley, osserva che nei settori tecnologici si è creata una forbice tra high skill - ben pagati - e altri livelli declassati; a ciò si aggiunge l’allargamento del divario tra produttività e compensi, che non recuperano negli ultimi anni. Qualcuno suggerisce che una possibile soluzione possa essere quella di lavorare sulla semplificazione della tecnologia, rendendola più accessibile, quindi aumentando le possibilità della massa dei lavoratori di utilizzarla.
Biotec, nanotec, energia, sanità, istruzione sono settori soggetti a una trasformazione rivoluzionaria; l’unico limite prevedibile è la nostra capacità di utilizzarli appieno. Il rischio è di guardare ai sintomi e non ai fondamentali: non riusciamo a innovare alla velocità dell’economia, non ci adattiamo alla velocità delle trasformazioni. Quasi tutto quello cui possiamo pensare può essere automatizzato. Il problema è far evolvere l’istruzione per adattarsi al cambiamento. Se questo non succede, si rischia di aggravare la situazione, la forbice tra lavori ad alta intensità di competenze e gli altri si sta allargando ed è una delle ragioni dell’ampliamento del divario nella distribuzione della ricchezza, rilevata sempre più spesso dagli economisti.
Su questo versante Enrico Moretti, docente di Berkeley, nel suo libro “La nuova geografia del lavoro”, individua una possibile soluzione. I Paesi che più puntano sull’innovazione creano e attraggono talenti, e ne formano le competenza. Il rapporto tra high skill e livello di ricchezza di un Paese è diretto: più talenti, maggior livello del PIL. E ogni lavoratore con competenze di lati livello genera una domanda che vale altri 4-5 posti di lavoro nei servizi.
Da noi, in Italia, il dibattito viene recepito solo nella sua accezione di pericolo e negatività. Il motivo è che siamo arretrati dal punto di vista tecnologico, poiché siamo abbarbicati a vecchie modalità, a nicchie protette, siamo minacciati al massimo dall’ingresso delle nuove tecnologie. L’aumento di produttività e l’automazione di compiti anche intellettuali mette a rischio i settori a basso valore aggiunto e le attività, anche intellettuali, poco flessibili e creative. Anche su questo, occorre innescare riflessioni e cambiamento.
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