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Lo sviluppo economico del secondo dopoguerra è stato caratterizzato da un approccio lineare, imperniato sulla produzione di massa, standardizzata, per fare budget sempre più ampi, e profitti altrettanto cospicui. E’ un modello poco efficiente, basato sull’utilizzo massiccio di energia e materie prime, assolutamente incurante del suo impatto sull’ambiente. Un modello dissipativo, fortemente deresponsabilizzato riguardo i costi sociali e ambientali, incurante del futuro.
Il concetto di circolarità si è imposto nell’ultimo biennio grazie all’intervento della scienza e all’incattivirsi della natura proprio nelle aree più sviluppate del pianeta, quelle più responsabili dei danni ambientali, ma precedentemente lontane dall’aggressione dei disastri climatici.
A fronte di questi, e della evidente riduzione di alcune fattori, materie prime e beni primari come acqua e aria pulita, ha preso piede una maggior consapevolezza che ha fatto del riuso e del riciclo l’approccio virtuoso. Ci si è concentrati sulla ricerca di circolarità nelle filiere integrate, interconnesse e interdisciplinari, come le ha definite Catia Bastioli, CEO di Novamont, protagonista di un altro ambito contiguo, quello della bioeconomia.Agricoltura e industria connessa che sono state un argine importante allo sconquasso di Covid 19, che hanno retto, pur denunziando qualche fragilità.
Ora, a fronte della strategia europea del Green Deal e alla sua messa in opera via Fit to 55, il settore deve dimostrare di essere in grado di reggerne l’impatto e di adattarsi alle esigenze della nuova economia: ll sistema agroalimentare (agricoltura, silvicoltura e pesca, nelle sue componenti agricoltura, agroindustria e commercio all’ingrosso e al dettaglio e ristorazione), ha un peso del 15% del PIL italiano.
Il settore ha retto abbastanza bene al Covid 19, il 2020 secondo l’ISTA T dovrebbe registrare una contrazione del Pil di circa 8-9% mentre il settore agricolo dovrebbe aver chiuso l'anno con un -3,3% del valore della produzione. Le vendite alimentari al dettaglio dovrebbero essere addirittura cresciute, segnando un +3,7%.
Bene anche l'export, che ha raggiunto un +1,7 secondo l'Istat. Entro la fine di quest’anno dovrebbe superare i 50 Mdi €, in controtendenza (+92%) con il calo dei consumi interni, -10% negli ultimi dieci anni (Dati Federalimentare).
Il successo crescete delle produzioni Made in Italy è minacciato da due pericolosi trend. Innanzitutto la recente drammatica crescita dei prezzi delle materie prime, che se dovesse divenire strutturale potrebbe minacciare le nostre produzioni di maggior qualità. Il secondo, più subdolo, la diffusione dell’Italian Sounding, cioè la comparsa massiccia all’estero di imitazioni dei prodotti nazionali, mascherati con nomi più o meno contraffacenti il Dop italiano.
A poco valgono le difese legali in sede UE e all’estero, e comunque se le possono permettere i grandi gruppi del settore, sono il 5% del totale ma coprono il 90% dell’export; il 95% restante è costituito da imprese medio-piccole.
La difesa della dieta mediterranea e del made in alimentare presuppone investimenti in marketing e comunicazione di cui dovrebbe farsi carico il sistema-Paese. Il nostro sistema alimentare è abbastanza sostenibile, ma la transizione ecologica richiede interventi che implicano costi che possono rivelarsi rilevanti.
A questo proposito la discussione attorno a Fit to 55, la politica recentemente dalla Commissione, che verrà discusso in Consiglio d’Europa, dovrà dare delle risposte. Già le reazioni dei membri dell’Est, Polonia e Slovacchia lasciano presagire alcune asperità.
Anche da noi la preoccupazione è palpabile: Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni, ha dichiarato al sole24ore: (la sostenibilità) “Diventa un’opportunità quando è competitiva, l’Italia infatti è seconda al mondo per robot utilizzati nel settore alimentare e stiamo diventando modello globale anche per il precision farming. Quella che invece non va bene è la sostenibilità di tipo ideologico, che chiede di smettere di inquinare semplicemente smettendo di produrre”. Gli fa eco Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare: “Chi non è d’accordo ad avere un mondo migliore? Ma la sostenibilità è fatta di tre gambe: ambientale, economica e sociale. Sta in piedi solo se si garantiscono tutte e tre”.
La strada della transizione è ancora lunga, e accidentata, e il modo di percorrerla deciderà della qualità futura del settore. Per ora si può prefigurare il futuro in tre passaggi: mangiare meno, meglio e italiano.
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